Cosa Succede sui Mercati – 2 ottobre 2018

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Berthe Morisot (1841 1895): LA GABBIA. Alcuni politici su entrambe le sponde dell’Atlantico sembrano impegnati ad uscire da quella che sembra loro una gabbia, ma non è detto che sia così…

Trump vuole smontare l’attuale sistema di scambi multilaterali che gli appaiono stretti, ha ulteriormente inasprito le sanzioni contro la Cina. Rischia di ricompattare i rapporti tra Cina e Giappone. La FED continua il percorso di rialzo dei tassi e si vedono anche i primi segni di ripresa salariale che potrebbero portare l’inflazione oltre le attuali aspettative. Anche il prezzo del petrolio merita di essere considerato… . In Italia è stata presentata una prima bozza della manovra economica che non sembrerebbe tenere in gran conto l’esigenza di rinnovare ogni anno circa 400 miliardi del debito di complessivi 2300. La coalizione della Merkel non appare in salute… !

Trump ha dato il via libera ad altri 200 miliardi di dazi verso la Cina raggiungendo così la metà delle esportazioni cinesi verso Washington e minacciando di colpire il totale qualora Pechino, come ha già annunciato, risponda con delle contromisure. L’insieme delle sanzioni contro Pechino non ha il potere di danneggiare l’economia mondiale, però ha effetti potenzialmente distorsivi: la Cina potrebbe svalutare la propria moneta e reindirizzare i propri flussi commerciali generando altri dazi. UBS attribuisce a questo scenario la possibilità di far calare il PIL mondiale di almeno mezzo punto. I dazi sono stati messi in modo tale da non colpire nell’immediato i prezzi, un aspetto evidenziato dai critici di Trump che parlano di conseguenze nel medio periodo per scelte tese ad acquisire consenso(*). Critici che fanno riferimento soprattutto ai tagli fiscali sui quali torneremo a breve. Circa le tariffe il rischio è quello di creare un diffuso clima di ostilità e o di sfiducia. Da più parti si fa notare un possibile riavvicinamento tra Tokyo e Pechino. I negoziati per un accordo commerciale tra Cina, Giappone, Corea del sud, India, Australia , Nuova Zelanda e tutti i paesi dell’ASEAN (Cambogia, Indonesia, Malesia, Filippine Singapore, Vietnam ect) , in altre parole il 45% della popolazione mondiale dislocata nelle aree a più alta crescita, sono partiti nel 2012. Sembravano destinati ad un binario morto, ma recentemente sono stati ripresi e potrebbero anche portare ad un’espansione dell’area di influenza della valuta cinese (**). Il prossimo 23 ottobre è prevista una storica visita a Pechino del primo ministro giapponese Abe. Tornando ai tagli fiscali di Trump vale la pena segnalare questo a rticolo di un noto economista tedesco che propone un’analisi critica della politica di Reagan cui Trump, e non solo… , ha spesso fatto riferimento. Werner Sinn ricorda come il deficit fiscale sia cresciuto sensibilmente ed i tassi di interesse siano cresciuti al punto da mettere in difficoltà una serie di paesi che si erano indebitati in dollari a partire dal Messico nel 1982. Fa notare che i recenti problemi di Turchia ed Argentina sono legati al rialzo dei tassi statunitensi e al conseguente apprezzamento del dollaro che ha buone probabilità di proseguire. Come è noto l’andamento dei tassi è una delle variabili che i mercati tengono sotto controllo nel timore che l’inflazione possa sfuggire al controllo. Il modo classico perché ciò avvenga è un aumento eccessivo dei salari. Un tema affrontato da questa nota in cui Morgan Stanley parla di salari in aumento m a non ancora “pericolosi”. Vale la pena aggiungere che l’inflazione è smorzata anche dalla forza del dollaro. Infine è interessante questa riflessione sui mercati obbligazionari. Morgan osserva il buon andamento degli spread, in questo caso si fa riferimento alla differenza tra i rendimenti dei titoli di Stato e quelli emessi dalle aziende , ma invita a non soffermarsi troppo sul messaggio che, normalmente, ne deriverebbe: quando sono bassi l’idea è che il mercato abbia fiducia nella solidità delle aziende e nelle loro prospettive di utili. Lisa Shallet, responsabile delle strategie di investimento per il wealth management, suggerisce di non trascurare i rischi di mercato e di aumentare le posizioni sui titoli di Stato statunitensi il cui rendimento del tre per cento appare di tutto rispetto. In Italia è stato presentato il progetto di Bilancio che prevede un deficit del 2,4%, in aumento rispetto alle promesse fatte dal governo precedente e agli accordi informali presi in sede europee, senza gli usuali dati di accompagnamento relativi al percorso dell’indebitamento e alla natura degli investimenti previsti per rilanciare l’economia. Circa gli investimenti non mancano poi le solite polemiche sulla forza del cosiddetto moltiplicatore, torneremo su questo punto che è cruciale visto che l’idea base sembra essere che spendendo di più si spinge il PIL. Chi critica il deficit previsto fa anche presente che da un’analisi dei circa 840 mld di spesa pubblica dovrebbe essere possibile individuare dei tagli… In particolare si fa riferimento ai 60 miliardi di trasferimenti a fondo perduto dati negli ultimi 20 anni al meridione e alla crescita , del tutto sproporzionata rispetto all’andamento dell’inflazione, che i beni e servizi hanno avuto negli ultimi anni 10: a fronte di un aumento dei prezzi del 50% la spesa è cresciuta del 172% . Viene poi ricordato che il parlare di un periodo di tre anni di spesa in deficit è una novità assoluta che potrebbe non piacere a chi deve decidere se l’Italia è un debitore affidabile cominciando dalle agenzie di rating con cui il nostro Paese ha appuntamento a fine mese. Infine qualcuno rileva che il 2,4%(°°) non corrisponde alle spese dichiarate dal governo che arriverebbero oltre il tre per cento rendendo veramente complicato garantire un’inversione del percorso di crescita del rapporto tra debito e PIL attualmente superiore al 130 per cento come ben sappiamo. Un segnale del genere potrebbe ragionevolmente convincere gli i nvestitori ad avere ancora fiducia nell’Italia altrimenti diventa sempre più complicato e si scivolerebbe verso un sentiero che prevede prima tassi alti e poi una forzatura all’uscita dall’euro. Buona parte dell’attuale dibattito si incentra sulle potenzialità del moltiplicatore ossia sull’idea che ad un euro di spesa pubblica corrisponda un incremento del PIL maggiore. La tesi del governo sembra essere quella che con mezzo punto di deficit in più, rispetto all1,9% che alla fine aspettavano i mercati, si possa arrivare ad una crescita dell’1,7% di PIL ossia circa un punto sopra l’attuale ritmo di crescita che è dello 0,8% con un moltiplicatore che entrerebbe in funzione con un valore pari a due e per di più fin dal primo anno. Diciamo che sono pochi gli economisti disposti ad accettare questa teoria. Se ne trovano di più inclini ad immaginare che il moltiplicatore dell’attuale manovra possa anche essere negativo per il tramite dell’aumento dei tassi di interesse (***), lo spread (°) ora è 300 ed era a 130 fino a maggio. E’ opportuno anche dar conto dell’opinione di chi ritiene che una manovra come questa in un momento in cui la prossima recessione potrebbe essere vicina non sia la migliore delle scelte. Inoltre potrebbe contribuire a sfaldare l’Europa che è già in un momento non facile mentre dovrebbe fare passi avanti verso l’unione bancaria. In Germania la Merkel inizia a perdere terreno all’interno del proprio partito che ha nominato un capogruppo diverso da quello storicamente vicino alla Cancelliera e dove qualcuno ha cominciato a chiedere la fine della Grande Coalizione anche in vista di eventuali sconfitte alle elezioni che si terranno tra due settimane in Baviera. In questo contesto è difficile che possa maturare un atteggiamento comprensivo verso chi non rispetta le regole che Bruxelles cerca di imporre per tenere insieme l’euro. Una comunità dove, forse giova ricordarlo, ci sono interessi diversi basti pensare alle assicurazioni tedesche che, nell’ambito delle cosiddette ramo uno, hanno garantito a qualche cliente tassi ormai inesistenti A questo punto, pur senza voler parlare di uno scenario probabile, ma certamente non meramente scolastico è bene ricordare brevemente quali possono essere le conseguenze di un’uscita dall’euro sia essa per tornare alla lira o per confluire in una sorta di euro dedicato ai paesi più deboli. La prima novità sarebbe legata alla svalutazione che subirebbe la nuova valuta per un ammontare pari almeno al 30%. Diventerebbe poi impossibile emettere debito nella nuova valuta poiché nessuno sarebbe disposto ad assumersi il rischio di ulteriori svalutazioni e quindi potremmo trovarci nella poco simpatica situazione di essere indebitati in una valuta diversa , e più forte, della nostra. Prima di terminare dobbiamo dire che parlando di Europa non si può prescindere dalla Brexit e che parlando di mercati, inflazione ed interessi non si può lasciare fuori il prezzo del petrolio che sta costantemente risalendo. Attualmente le trattative della May appaiono in salita. Il prossimo appuntamento cruciale dovrebbe essere a metà novembre, il parlamento inglese ha come data ultima, per sottoscrivere un accordo, quella del prossimo 21 gennaio. In caso di raggiungimento di un’intesa ci sarebbe poi un periodo transitorio fino a dicembre del 2020. Le conseguenze di un mancato accordo sarebbero pesanti per Londra dal punto di vista economico e potrebbero mettere in ulteriore difficoltà la tenuta dell’euro sul versante politico. Venendo al petrolio va segnalato che nel pieno dell’estate il Brent costava poco più di 70 dollari al barile mentre ora è a 85. La domanda globale è in aumento. Gli USA restano il primo produttore ed hanno aumentato le esportazioni, ma i paesi del Golfo non hanno riserve da mettere sul mercato ed il Venezuela e l’Iran producono poco. In particolare dal 4 novembre partiranno le sanzioni statunitensi contro Teheran che prevedono l’esclusione dai mercati finanziari americani per chi volesse lavorare con l’Iran. Morgan Stanley raccomanda il settore energetico per il possibile consolidamento degli attuali prezzi più alti dei mesi scorsi e come rifugio contro l’inflazione che potrebbe aumentare. Non va dimenticato che siamo vicini ad un livello dei tassi offerti dal decennale americano suscettibili di iniziare a dar fastidio ai mercati azionari che, al momento, rimangono ben impostati come si evince da questa tabella pubblicata da Merrill Lynch.

Possiamo aggiungere che UBS considera un eventuale barile a 120 dollari la scintilla per una nuova recessione

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G.G. e M.R.

(*) Per le elezioni del 6 novembre si prevede un vantaggio alla Camera per i democratici, mentre è difficile che il Senato possa cambiare colore, rimanendo quindi ai repubblicani.

(**) Ieri Trump ha raggiunto un accordo per sostituire il NAFTA, il trattato commerciale con Canada e Messico, ed ha attribuito questo successo alla sua abilità di negoziatore. In effetti il nuovo accordo, l’USMCA, prevede condizioni migliori per i lavoratori. Il problema potrebbe essere che Trump intende continuare col suo stile di trattativa ed ha minacciato nuovamente dazi sulle auto europee. Uno stile che rimane rischioso come spiegato in questo articolo che paventa le conseguenze di una rottura delle tradizionali alleanze.

(***) Dato l’elevato ammontare del debito, il tasso richiesto al Tesoro non potrà che aumentare, trascinandosi dietro quello che le banche chiedono ai privati e, quindi, frenando gli investimenti. Il rialzo dei tassi inoltre complica la vita alle banche che potrebbero essere chiamate a svalutare i loro titoli in portafoglio e, quindi, in qualche caso a ridurre i prestiti.

(°) Lo spread di cui stiamo parlando qui è la differenza tra quanto deve pagare lo Stato tedesco per finanziarsi sui mercati e quanto viene richiesto alle emissioni di titoli di Stato italiani.

(°°) Il deficit al 2,4% rappresenta un problema anche perché interrompe un percorso di discesa dello stesso che, per altro, era più alto in anni in cui la ripresa era meno consolidata. Va inoltre sottolineato che i cosiddetti soldi regalati alle banche ne hanno impedito il fallimento che avrebbe avuto conseguenze a catena sull’economia.

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