Cosa succede tra USA e Cina – 15 Maggio 2019

Arthur John Elsey: BEN PROTETTA. Trump è tornato a minacciare dazi verso la Cina. Difficile dire cosa succederà, ma l’idea di proteggere l’America, se applicata, potrebbe in realtà danneggiare l’economia mondiale. Tutto sembra destinato ad essere giocato in base a differenze culturali che, se esasperate, potrebbero portare a scenari di mercato diversi da quelli, per ora, considerati più probabili e tranquilli.

La Cina negli ultimi 40 anni ha fatto molti passi avanti e si sta muovendo in modo da farne ancora. Qualche economista attento alla storia sostiene che è stata assente per 200 anni, ma sta cercando di riprendere il suo posto nell’economia mondiale. Non va dimenticato che Cina vuol dire regno di mezzo (*).

Ovviamente questa strategia non è vista con simpatia da parte di Washington che con tutte le sue flotte ha il controllo dei mari attraverso cui passa circa il 90% del commercio mondiale. La via marittima della seta cerca di opporre al controllo dei canali e degli stretti che hanno gli USA quello dei porti. Anche se dovesse essere raggiunto un accordo sui dazi, tutti concordano nel dire che la tensione tra Pechino e Washington è destinata a rimanere. I fronti aperti sono numerosi. Si può pensare, giusto per fare un esempio, alla questione di Taiwan che Pechino non riconosce e vorrebbe ricongiungere alla madrepatria mentre USA e anche Giappone, entrambe dotate di flotte navali (**), considerano una nazione svincolata da Pechino. Il controllo di Taiwan è importante per Pechino anche per accedere liberamente al Pacifico e, come dire, l’idea non sorride per niente agli USA. Gli americani poi vorrebbero coinvolgere la Cina nelle trattative sugli armamenti. La Cina non ha mai firmato accordi e questo le ha permesso di sviluppare la propria capacità militare.

Le trattative commerciali possono essere considerate in due blocchi. Il primo sugli squilibri commerciali che molti economisti attribuiscono più a colpe statunitensi che cinesi e l’altro sulle politiche cinesi che Washington vorrebbe cambiare: la tendenza a consentire accesso al mercato solo dietro la cessione di tecnologie e l’eccessivo aiuto alle industrie statali. Come è noto sembrava che un accordo fosse praticamente concluso quando, pochi giorni fa, Trump ha deciso di scongelare l’aumento dei dazi dal 10 al 25% su buona parte dell’export cinese. Il viaggio del vice premier cinese, che ha studiato ad Harvard, è stato, come dire, poco proficuo e l’undicesimo round negoziale portato avanti dalla Cina nonostante i tweet di Trump non ha avuto successo.

Esiste una sorta di convenienza comune ad un accordo, ma vanno evidenziate le differenze culturali che portano ad un clima estremamente avverso alla Cina in tutti i settori culturali e politici statunitensi, democratici compresi. Curiosamente Pechino sta difendendo il libero mercato mentre la prima potenza occidentale parla di protezionismo, ma Pechino resta diversa da Washington. Negli ultimi anni il controllo che il Partito esercita sulla popolazione è tornato ad aumentare. Ad esempio sono tornati ad essere necessari permessi per andare all’estero e si sta organizzando quello che viene definito una sorta di punteggio legato al comportamento dei singoli cittadini sui social. Avere un buon punteggio, ossia evitare di criticare il governo, permette di frequentare scuole migliori, di poter comprare on line i prodotti migliori, di avere accesso alle sale VIP negli aeroporti, di avere visti con maggiore facilità. Un’altra differenza fondamentale è quella delle prospettive temporali: molto più lunghe e strategiche quelle cinesi rispetto a quelle occidentali. Qualcuno richiama anche il rapporto con la chiesa cattolica che Pechino considera a modo suo in quanto non accetta che uno Stato straniero possa nominare delle autorità sul proprio territorio: i vescovi. Gli ottimisti qui immaginano che le cose possano migliorare con l’attuale papa in quanto gesuita. Gesuita era anche Matteo Ricci, vissuto tra il cinquecento ed il seicento e sepolto vicino alla città proibita, che ha aperto i canali tra la Cina e l’Occidente.

Va anche detto che Il divario tecnologico cinese è ormai notevolmente ridotto al punto che anche i cinesi hanno brevetti da difendere. Possiamo pensare, oltre che alle competenze di Huawei che tanto preoccupano gli USA per possibili pratiche di spionaggio, alle prime 10 imprese mondiali nel solare di cui 6 sono cinesi ed analogo posizionamento esiste nell’eolico. Nel 2017 dei 93 gigawatt di energia pulita installata nel mondo 54 sono stati attivati da Pechino. Una quantità, la seconda, pari a quanto installato dagli USA in tutti gli anni precedenti.

La convenienza reciproca a raggiungere un accordo tra Cina ed USA si basa, in sintesi, sull’acquisto di Treasuries da parte di Pechino e sulla notevole quantità di merci esportata da Pechino. La Cina detiene circa 1100 miliardi di dollari in titoli che compra reinvestendo parte dell’attivo commerciale di oltre 400 mld di dollari che Trump vorrebbe ridurre dimenticando, dicono molti economisti, che la colpa è della mancanza di risparmio da parte dei consumatori americani. Diminuire l’attivo cinese molto probabilmente non farebbe altro che aumentare quello nei confronti delle altre nazioni. Gli americani hanno un passivo commerciale nei confronti di 102 paesi anche se quello con Pechino è di gran lunga il maggiore. Va anche detto che per Pechino le esportazioni sono molto importanti visto che mantenere un buon ritmo di crescita le è indispensabile per tenere a bada le instabilità politiche che esistono al suo interno. Se alcune aree sono ormai una fucina di milionari ne esistono altre che sono rimaste molto indietro e che sono instabili al punto di organizzare anche attentati terroristici.

Tra le principali “note di colore” relative agli scambi va detto che Pechino potrebbe comprare la soia che gli serve, in particolare per nutrire i maiali le cui bistecche sembra che i cinesi apprezzino sempre di più, in Brasile ed in Argentina mettendo in difficoltà Trump perché gli agricoltori sono parte integrante della sua base elettorale. Potrebbe inoltre ridurre gli ordinativi alla Boeing.

In conclusione è auspicabile, e praticamente tutte le case d’investimento dipingono come scenario più probabile quello che va in questa direzione, che si possa raggiungere un accordo magari con un incontro personale tra i due leader al G20 in Giappone a fine giugno, ma le probabilità di un incidente di percorso, legate alle diverse culture tratteggiate in precedenza, sono aumentate ed i mercati sicuramente potrebbero risentirne. Morgan Stanley fa anche notare che l’economia cinese si sta rinforzando rispetto a qualche mese fa mente gli USA vedono sfumare i benefici della riforma fiscale. Al momento i dazi americani non sono ancora partiti in quanto non applicati alle merci già imbarcate e le attuali ritorsioni cinesi partiranno il primo giugno. Con riferimento alla questione delle tariffe in generale va anche considerato che dalla trattativa tra USA e Cina potrebbe rimanere esclusa l’Europa che potrebbe subire dei danni direttamente, magari nel settore dell’agricoltura, o indirettamente se Trump dovesse davvero rivolgere la sua politica protezionista anche alle auto europee. Qualcuno fa notare che, in teoria, l’Europa potrebbe intercettare il 50% dell’export cinese verso gli USA ed il 70% di quello statunitense verso Pechino, ma dovrebbe agire unitariamente… !

(*) Nel senso che tutto faceva riferimento alla Cina e all’esterno si intendeva ci fossero oscure periferie.

(**) Tokyo, pudicamente, chiama la propria Marina forza di autodifesa, ma ha una flotta più potente di quella cinese.

G.G e M.R.

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