Van Gogh (1853-1890): CAMPO DI GRANO CON CORVI. Una parte delle trattative tra Cina ed USA riguarda l’agricoltura. Il raggiungimento, o meno, di un accordo è un elemento molto importante per elaborare gli scenari di mercato dei prossimi mesi.
Gli indici azionari statunitensi segnano nuovi massimi prolungando un movimento che ormai ha superato i 10 anni e l’elaborazione dei possibili scenari futuri è un esercizio che appassiona sempre più gli analisti. Si riflette sul tipo di stimoli di cui potrà godere l’economia: monetario, fiscale o un mix . Si torna a parlare, per quanto in modo confuso… , di unione bancaria.
Ormai le trattative tra Washington e Pechino vanno avanti da oltre 20 mesi con uno schema, difficilmente comprensibile, che ha visto passi in avanti e bruschi rallentamenti legati a motivazioni più spesso strategiche o politiche che non economiche. Adesso sembra che la cosiddetta fase uno possa concludersi a breve. In pratica Pechino dovrebbe importare beni agricoli per diversi miliardi e Trump rinunciare all’aumento delle tariffe inizialmente previsto per ottobre e poi rimandato a dicembre. Un accordo, che dovrebbe essere firmato il prossimo mese, e che, comunque nessuno pensa possa evitare quella che sembra ormai una guerra fredda tra le due principali potenze mondiali.
Negli USA, già da prima di Trump, sta prendendo piede una scuola di pensiero critica verso l’accoglienza della Cina nel commercio mondiale. Fu decisa, nel 2001, per favorire quella che era un’economia in via di sviluppo che si pensava così di avvicinare ai valori democratici. In realtà i valori cinesi sono rimasti distanti da quelli occidentali, si pensi al punteggio SCS (Sistema di Credito Sociale: per semplificare al massimo, una sorta di classificazione dei cittadini in funzione del loro comportamento pro o contro il sistema), mentre invece l’economia ha fatto enormi passi avanti. Si stima, ad esempio, che entro la fine dell’anno in 50 città cinesi funzionerà il 5G. La fase uno dell’accordo, che quindi lascerebbe fuori tutti i punti relativi alla concorrenza sleale cinese, non è, per la verità, ancora raggiunta: Washington vorrebbe che gli acquisti di soia per 50 mld fossero da subito scadenziati, ma Pechino non risulta disponibile. In ogni caso entrambe le parti hanno interesse a raggiungere un accordo. Trump, come abbiamo appena detto, non ha raggiunto il suo obiettivo principale e rischia, secondo il FMI, di vedere sparire un punto di PIL per via delle sanzioni. Pechino ha ugualmente problemi di crescita anche se legati solo in minima parte alle tariffe. Problemi che sta cercando di fronteggiare senza grossi investimenti, come invece ha fatto in occasione di precedenti rallentamenti, per non indebitarsi ulteriormente. Per ora sta cercando di cavarsela ricorrendo ad una politica monetaria espansiva: ha tagliato i tassi. In ogni caso possiamo notare che le basi per una solida partecipazione della Cina alla crescita mondiale rimangono solide. Molti studi specificano che un forte rallentamento del livello di crescita di un’economia emergente si verifica solo quando il suo PIL pro capite raggiunge il 50-60% di quello delle economie avanzate ed in Cina è ancora intorno al 30%! Inoltre va ricordato che Pechino sta incrementando moltissimo il numero di laureati e che sta incassando quello che può essere definito il dividendo dei molti investimenti in tecnologia e sistemi di trasporto. Per fare un esempio risulta che la rete elettrica cinese sia molto più avanzata di quelle occidentali.
Un mancato accordo sarebbe probabilmente accompagnato da una correzione dei mercati, va comunque detto che, per il momento, sul fronte europeo sembra non si parli più di tariffe per il settore automobilistico anche se gli attacchi di Trump all’Europa probabilmente si ripeteranno. Qualcuno si diverte a ricordare che prima degli accordi di Bretton Woods si era pensato di mettere insieme tutta l’anglosfera ed immagina che la Brexit, al momento appesa alle elezioni del 12 dicembre nel Regno Unito, possa essere una tentazione in tal senso, s oprattutto se l’Europa non riesce a ritrovare un minimo di coesione magari facendo partire la nuova Commissione. Ultimamente, come è noto, si sono riaccese le discussioni sull’ESM, MES (Meccanismo Europeo Stabilità) in italiano. Allo strumento che ha contribuito a salvare Grecia, Portogallo ed Irlanda si sta pensando di affidare maggiori poteri per intervenire anche su eventuali crisi bancarie.
In particolare l’Italia vorrebbe che fosse implementato in parallelo con lo sviluppo di un’unione bancaria vera e propria. Lo scorso mese di giugno una riunione dell’eurogruppo era partita con un automatismo tra la richiesta di aiuto e la ristrutturazione del debito, ma è finita senza che venisse introdotto. Inutile dire che tutto il dibattito continua a girare sulla riduzione del debito pubblico e sulla presenza dei titoli di Stato nei bilanci delle banche senza nessuna differenza in base alla nazione che li emette. Come è noto la Germania ed altri paesi nordici vorrebbero che non tutti i titoli di Stato fossero considerati privi di rischio, ma che quelli collocati dai paesi più indebitati subissero delle rettifiche.
All’unione bancaria al momento manca un meccanismo di garanzia comune dei depositi che i falchi non intendono avallare se non prima che alcuni titoli più a rischio siano svalutati nei bilanci degli istituti di credito. Inutile negare che nella polemica tra i vari Stati europei è coinvolta anche la BCE di Christine Lagarde su cui i tedeschi non mancheranno di far pesare il recente downgrade, effettuato da Moody’s, su alcuni istituti tedeschi motivato dal panorama di tassi negativi. Secondo un sondaggio pubblicato dalla Bundesbank almeno il 60 per cento delle banche tedesche sta caricando i tassi negativi sui depositi della clientela corporate e più del 20% sta facendo lo stesso sulla clientela retail. Il tema può diventare delicato e c’è da sperare che venga gestito bene da tutte le parti in causa: far anche soltanto percepire ai mercati che le attuali garanzie potrebbero, seppur a determinate condizioni, venir meno potrebbe innestare movimenti speculativi.
Molti commentatori hanno fatto un collegamento con la cosiddetta passeggiata di Deuaville, nell’ottobre del 2010 in Normandia, dove Merkel e Sarkozy diedero il via libera al coinvolgimento dei privati, e quindi delle banche, nel salvataggio greco con la conseguenza che la situazione dell’Irlanda, già precaria, precipitò nel default. Secondo qualcuno, che probabilmente ha ragione, gli effetti di quella decisione furono arginati solo, nel luglio 2012, con il famoso “qualunque cosa serva” di Draghi.
Tornando alla politica monetaria di oggi la FED ha indicato che, dopo gli ultimi tre ribassi, avrebbe l’intenzione di mantenere i tassi stabili, ma non sembra comunque intenzionata, come dire, ad andare a caccia di bolle (ricominciare ad alzare i tassi). I dati del mercato del lavoro americano rimangono buoni, ad ottobre sono stati creati 128.000 nuovi posti di lavoro, anche se qualcuno inizia ad insinuare il dubbio che si stia assumendo personale a discapito degli investimenti che non sono altrettanto facilmente reversibili. La tabella che segue è presa da uno studio che UBS ha presentato per spiegare le proprie aspettative per il 2020, nell’illustrare gli scenari sottolinea anche che sarà più importante di quanto sia stato finora selezionare i titoli giusti piuttosto che comprare il mercato senza distinzioni. In particolare per il mercato azionario gli analisti svizzeri suggeriscono di puntare sui dividendi alti, a questo proposito si aspettano utili in crescita del 5% negli USA e del 6% negli emergenti mentre vedono i guadagni delle aziende europee contrarsi del 3%.UBS presenta anche alcune riflessioni sull’oro.
Ricorda che quest’anno è salito quasi del 20%, sostiene che anche nel prossimo anno potrebbe essere aiutato dai bassi tassi di interesse (l’oro non rende e con i tassi bassi il costo opportunità di detenerlo scende) e presenta questa tabella che ne evidenzia il potenziale di bene rifugio in caso di crisi.
G.G e M.R.
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