Arthur John ELSLEY (1860-1952): Imparando a nuotare. Negli ultimi 10 anni gli investitori hanno avuto vita facile. Nel proseguo è possibile che debbano tornare a fare più attenzione nell’individuare gli asset.
Il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto al ribasso le stime sulla crescita mondiale, crede però in un rimbalzo per il 2020 pur legandolo ad un calo delle tensioni commerciali ancora tutto da vedere. La Brexit resta un nodo da sciogliere. Dalla FED i mercati si aspettano molto. Riflessioni sui tassi negativi. Un breve aggiornamento sul processo a Trump.
Il Fondo Monetario Internazionale, nel suo secondo rapporto annuale presentato ad ottobre, stima una crescita mondiale pari al 3% nell’anno i corso e prevede che nel 2020 si riavvicini a quella dello scorso anno. L’ottimismo sarebbe legato al calo delle tensioni commerciali che negli ultimi due anni hanno visto il commercio mondiale passare da una crescita del 5% ad una situazione di stallo. In realtà è difficile parlare di accordi raggiunti tra Pechino e Washington. Quello che è successo negli ultimi giorni, insieme a buoni risultati delle trimestrali statunitensi che ha portato lo S&P vicinissimo a stabilire un nuovo record, è soltanto una tregua. Una delle tante già viste, se si vuole. E’ stato bloccato il passaggio delle tariffe statunitensi dal 25 al 30 per cento e la Cina si è impegnata ad importare beni agricoli, in particolare soia e carne di maiale. A questo proposito qualcuno fa notare che le cifre di cui si parla, 40-50 mld di dollari, sono poco credibili perché molto più alte di quelle viste in precedenza. La prova di quanto sia ancora tutto da definire, infine, sta nel fatto che Pechino ha chiesto chiarimenti. L’ipotetica firma potrebbe esserci a novembre in occasione di un vertice internazionale dell’area asiatica cui dovrebbero partecipare sia Xi che Trump. Inoltre è bene non dimenticare come sia proprio l’approccio bilaterale, anziché multilaterale come è stato finora, ad essere messo in discussione da molti economisti. In un articolo Steve Roach, professore a Yale e presidente di Morgan Stanley USA, ricorda come il deficit commerciale statunitense non possa essere collegato a quanto succede a Pechino. Il deficit di Washington, pari a 879 miliardi nel 2018 e salito a 919 nel secondo trimestre dell’anno in corso , è legato ai rapporti esistenti con 102 paesi ed è principalmente causato dalla mancanza di risparmio degli americani.
Come sappiamo l’altra questione che preoccupa i mercati al momento è la Brexit, che si sta facendo sempre più complessa. Sky è arrivata ad offrire ai suoi clienti inglesi un canale su cui essere sicuri di non sentirne parlare!
Johnson ha elaborato un nuovo accordo in qualche misura a spese dell’Irlanda del Nord che vede il confine nei confronti dell’Europa sul mare (*). Il nuovo accordo è stato finalmente approvato dal parlamento che subito dopo ha rimesso tutto in discussione non permettendo di concluderlo entro il 31 ottobre. A questo punto tutto è ancora possibile, nuove elezioni sembrano certe a Londra in dicembre ed un nuovo referendum è un’opzione di cui si parla sempre di più. Le elezioni a Londra avevano bisogno di essere autorizzate dai due terzi del parlamento e, quindi, anche dai laburisti che in cambio hanno chiesto l’impegno formale a non uscire senza accordo. Prima dell’accordo i conservatori avevano risposto che la prossima manovra di bilancio non sarebbe stata presentata minacciando, in sostanza, uno sciopero del governo che si sarebbe concentrato unicamente sulla richiesta di elezioni. Inutile dire (!) che il risultato di eventuali nuove elezioni non appare per niente scontato. Le conseguenze della cosiddetta hard Brexit sarebbero immediate sul cambio della sterlina. Sconterebbe aspettative di un rallentamento dell’economia del Regno Unito che deve il 13% del suo PIL alle esportazioni verso l’Europa. Il FMI stima che il PIL di Londra possa essere più basso del 3,5% nel 2021 pur mettendo in conto i benefici per le aziende esportatrici grazie alla sterlina debole. In caso di uscita non conflittuale ci sarebbero, invece, due anni di tempo onde trovare un accordo sulle numerose soluzioni possibili per regolare il commercio inglese.
Tornando ai dati economici possiamo dire che questa è la stagione delle trimestrali, le quali non sembrano mettere a rischio i mercati, che gli investimenti delle imprese dovrebbero essere in ripresa dopo diversi trimestri negativi e che i consumi dovrebbero tenere. A settembre gli occupati non agricoli sono cresciuti di 136.000 unità ed il tasso di disoccupazione è sceso al 3,5%.
Dalla politica monetaria i mercati continuano ad aspettarsi un aiuto. La BCE, in occasione dell’ultima conferenza stampa di Draghi, ha annunciato acquisti di 20 mld di titoli al mese dal primo di novembre fino a quando servirà. Dalla Fed i mercati si attendono nuovi tagli di tassi entro il 2020 e, forse, anche un nuovo QE ossia ulteriori acquisti di titoli. Comprando titoli le autorità monetarie iniettano liquidità del sistema nella speranza che questa p ossa essere indirizzata verso gli investimenti. Una speranza in qualche misura vana al punto che esiste anche una scuola di pensiero che considera molto pericolosi i tassi di interesse negativi. Si sostiene che la spinta agli investimenti sia più che controbilanciata dal rischio che, grazie ai livelli minimi dei tassi, vengano finanziati progetti destinati a fallire e che i bilanci delle banche possano andare in crisi visto il drastico calo dei proventi legati all’intermediazione del denaro.
In linea di massima gli investitori credono in un soft landing ossia un semplice rallentamento dell’economia che non sfoci in una recessione; naturalmente non manca la preoccupazione che un qualche imprevisto possa determinare un cambio di scenario. Tra le possibili cause, oltre che ai dazi e alla Brexit di cui abbiamo già parlato, qualcuno fa notare che esiste un enorme ammontare di titoli obbligazionari emessi dalle aziende, in particolare americane e cinesi. L’economia cinese mostra segnali di rallentamento, nel 2020 il FMI stima una crescita del 5,8%. Per l’anno in corso si parla di 6,1% e nei due precedenti è stata del 6,8% e del 6,6%. Oltre ai dazi, che per la verità incidono poco, pesa la volontà di rilanciare i consumi a spese degli investimenti. La domanda interna appare debole, la vendita di auto, ad esempio, è in calo. Persino di quelle elettriche che avevano retto il mercato. Il governo sta, comunque cercando di aiutare l’economia intervenendo sulla tassazione ed al tempo stesso di tenere sotto controllo gli eccessi di indebitamento. La conglomerata HNA, primo azionista di Deutsche Bank, ha dovuto vendere per rientrare da debiti in patria e non è un caso isolato. Inoltre pur rimanendo un grande utilizzatore di carbone Pechino sta facendo molti investimenti verdi, pensiamo alle nuove città in costruzione messe in concorrenza tra loro per sviluppare un efficiente modello di smart city. Va anche ricordato che si è da poco votato in Argentina(**) dove i peronisti sembrano tornare al potere senza neanche aspettare il secondo turno previsto per il 24 novembre.
Infine vale la pena esaminare brevemente l’impeachment a cui potrebbe essere sottoposto Trump. Un’ipotesi molto improbabile visto che decide il Senato, dove la maggioranza necessaria è ben lontana dai numeri a disposizione dei democratici. Tutto nasce dal dubbio che la Casa Bianca abbia, in una telefonata effettuata il 25 luglio, ricattato l’Ucraina, appoggiandosi ad un rifornimento di armi, per ottenere delle indagini contro uno dei figli di Biden, l’ex vice di Obama che potrebbe essere lo sfidante democratico il prossimo novembre. Gli ultimi sviluppi sono legati a dichiarazioni dell’attuale ambasciatore americano in Ucraina, quello con cui il dipartimento di Stato ha sostituito il precedente che Trump aveva esonerato. William Taylor ha confermato alla commissione d’inchiesta della Camera che c’è stata una politica estera parallela guidata da Giuliani, ex sindaco di New York ed avvocato di Trump, che si occupava di osteggiare Biden.
(*) La questione del Backstop è stata così risolta: secondo il nuovo accordo raggiunto con l’Europa non ci sarà un confine fisico in Irlanda. Ovviamente gli unionisti irlandesi hanno ritirato il loro appoggio al governo che comunque ha visto approvare l’accordo a Westminster. Tale circostanza rende del tutto probabile un referendum, già previsto dagli accordi del venerdì santo, per staccare Belfast da Londra e, come dire, irrita gli scozzesi che avrebbero gradito anche loro rimanere in Europa, ma Johnson non sembra essersi soffermato su questi aspetti.
(**) L’Argentina ha circa 45 milioni di abitanti ed una storia economica, come dire, complessa. Da quando ha dichiarato l’indipendenza dalla Spagna, nel 1816 iniziò un processo che portò nel 1853 ad una confederazione di Stati, ha subito 8 default totali che salgono a 14 contando anche quelli parziali. Il primo ci fu nel 1824 ed il secondo nel 1890. Il problema spesso è stato l’eccesso di indebitamento in valuta straniera divenuto insostenibile nei momenti di crisi della valuta locale. Un grave errore è stato anche quello di aver introdotto una parità tra il dollaro ed il pesos. Ha avuto brevi momenti di espansione economica all’inizio del novecento e dopo la seconda guerra mondiale. Ha subito la dittatura militare dal 1976 al 1983 come conseguenza del peronismo che, con la terza moglie di Peron (Isabelita), aveva già un’impronta autoritaria. Durante gli anni 80 l’inflazione divenne incalcolabile i prezzi nei supermercati venivano cambiati più volte al giorno. Per controllarla fu introdotta, nel 1991, la parità col dollaro, la banca centrale doveva tenere riserve in dollari per un ammontare pari alla moneta in circolazione e rinunciare al controllo del cambio oltre che alla possibilità di stampare moneta, un ritorno al gold standard volendo (!), L’inflazione non scomparse, ma si ridusse molto. Il sistema cominciò ad essere indebolito dalla crisi messicana che costrinse il paese centroamericano a svalutare la propria divisa. L’argentina comunque sembrò superare il brutto momento fino a quando non ci fu la crisi asiatica nel 1997 con la Thailandia che fu costretta ad abbandonare la parità col dollaro, stessa cosa fece il Brasile due anni più tardi, che non aveva una parità fissa ma una banda di oscillazione. L’argentina invece abbandonò la parità solo nel 2001 costretta ad ammettere che la forza del dollaro, e quindi del peso, contro euro e real aveva compromesso le esportazioni da sempre vitali per il paese. Il cambio contro il biglietto verde passò dalla parità a trenta centesimi di dollaro per un peso. Il debito, però rimaneva in dollari. La conseguenza fu il fallimento di molte aziende prima e dello Stato successivamente. Purtroppo Buenos Aires non sembra aver ancora trovato il ritmo giusto delle riforme, inoltre provvedimenti presi al momento sbagliato o in modo discontinuo non permettono di escludere che la storia si ripeta. Nel 2018 inoltre una forte siccità ha minato gli sforzi di rilanciare con successo l’economia.
G.G e M.R.
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