Eugene DE BLAAS (1843-1931): PORTATRICE D’ACQUA. L’apporto di liquidità delle autorità monetarie ha garantito la calma dei mercati e sarà ancora seguito con attenzione.
Pechino e Washington hanno raggiunto un accordo, di basso profilo, su quella che è stata definita la fase uno dei negoziati commerciali. La Brexit sta per entrare nel vivo delle negoziazioni per il futuro dei rapporti commerciali. Negoziazioni che potrebbero intrecciarsi con la volontà di Trump di ostacolare l’Europa. I motivi di possibili tensioni geopolitiche sembrano aumentare anche alla luce dell’anno elettorale in USA. Lo scenario più condiviso dalle principali case d’investimento rimane quello di un proseguimento dell’attuale fase rialzista, ma diversi economisti si esercitano in vari distinguo basati principalmente sul ruolo delle banche centrali e, in misura minore, sul livello delle quotazioni. Qualcuno prova anche ad immaginari gli scenari del medio termine che, oggettivamente, potrebbero essere più complicati se non verrà disinnescata qualche “mina” a livello geopolitico. Il green deal.
Negli ultimi due anni le banche centrali hanno aiutato molto i mercati soprattutto quando sono tornate indietro rispetto all’iniziale decisione di invertire la rotta. La Fed aveva alzato tassi di interesse quattro volte nel 2018, aveva segnalato ulteriori aumenti per il 2019, ed impostato l’assetto del proprio bilancio sul “pilota automatico” ossia su una riduzione degli attivi in circolazione. Inoltre, la BCE aveva concluso la propria politica d’espansione di bilancio ed iniziato a evitare ulteriori stimoli.
Un anno dopo, tutte queste misure sono state invertite. Invece di aumentare ulteriormente i tassi la Fed li ha tagliati in tre occasioni (*). Invece di ridurre il suo bilancio lo ha ampliato in misura ben superiore rispetto a qualsiasi periodo comparabile dopo la crisi. E lungi dal segnalare un’eventuale normalizzazione della sua struttura dei tassi ha segnalato chiaramente la volontà di tenerli bassi a lungo. Anche la BCE ha spinto ulteriormente i tassi di interesse in territorio negativo e ha ripreso il programma di acquisto di attività (comprando titoli immette liquidità in circolazione). Di conseguenza la Fed e la BCE hanno aperto la strada a numerosi tagli dei tassi in tutto il mondo e creato alcune delle condizioni monetarie globali più favorevoli mai registrate.
Questa decisa inversione di tendenza è stata anomala per due motivi. E’ andata contro il crescente disagio, sia all’interno che all’esterno delle banche centrali, per l’impatto negativo di tassi bassissimi e sotto zero sulla stabilità finanziaria. Poi va segnalato che l’inversione non è stata la risposta ad una recessione. Secondo la maggior parte delle stime nel 2019 la crescita è stata di circa il 3% rispetto al 3,6% del 2018 e molti osservatori prevedono una rapida ripresa nel 2020. Questo comportamento delle autorità monetarie ha in pratica addestrato i mercati a sfruttare ogni debolezza per nuovi acquisti.
Per quanto lo scenario da tutti ritenuto più probabile nel 2020 sia quello di un proseguimento dell’attuale fase rialzista non si può non osservare come il quadro geopolitico possa rimettere tutto in discussione!
Trump ed il vice di Xi hanno finalmente firmato quella che è stata definita la fase uno delle trattative che, in realtà, lascia fuori i punti fondamentali dell’attrito tra Washington e Pechino. La tutela dei brevetti, la concorrenza nel campo dell’intelligenza artificiale e i finanziamenti alle imprese statali cinesi. Uno dei punti fondamentali dell’accordo, come sappiamo, riguarda l’acquisto dei prodotti agricoli statunitensi da parte di Pechino che deve essere visto alla prova dei fatti; si parla di 200 mld di acquisti in due anni tra beni e servizi, ma rimangono in vigore buona parte delle tariffe fin qui innalzate che potrebbero essere aumentate se non arriveranno gli acquisti “concordati”. Qualcuno sostiene che sia impossibile raggiungere un tale importo considerando che al massimo sono stati importati 26 mld, nel 2012.
La Cina inoltre potrebbe “attaccare” sul fronte delle v alute virtuali. Da tempo si parla della prima criptovaluta di Stato che starebbe per lanciare Pechino. Un passo del genere, magari legato ai finanziamenti concessi per la via della seta, potrebbe scatenare un terremoto nel sistema dei pagamenti che, per altro, non è certo al passo con le tecnologie disponibili. Di fatto una valuta virtuale sovrana potrebbe mettere in seria difficoltà le banche commerciali perché mantenere dei depositi presso di loro sarà, comunque sempre più rischioso rispetto a quelli, eventualmente, offerti dalle banche centrali.
Resta inoltre aperta la questione dei dazi contro l’Europa che, va ricordato, è stata oggetto di trattamenti differenziati per cercare di evitare un fronte comune da parte del vecchio continente. Si è parlato, ad esempio, di tariffe verso i formaggi francesi escludendo quelli italiani. Nel corso di quest’anno dovranno poi essere portate avanti le trattative per definire i rapporti commerciali tra Regno Unito ed Europa dopo l’uscita del 31 gennaio prossimo. Da marzo partiranno i colloqui formali per ora c’è stato solo un incontro tra Johnson e Von der Leyen in cui la presidente della Commissione ha fatto capire che 11 mesi previsti per una trattativa, che metta fine ad un matrimonio durato 40 anni, sembrano pochi. Potrebbe essere chiesta un’estensione o si potrebbe anche scivolare nuovamente verso un no deal. Al momento Boris sembra escludere un prolungamento delle trattative, ma non sarebbe certo la prima volta che torna sui suoi passi!
A partire dalla fine del mese il Regno Unito entrerà in un periodo di transizione nel quale dovrà raggiungere un accordo con l’UE sulle nuove relazioni bilaterali in materia commerciale e sui molteplici altri settori in cui le due parti sono interessate a mantenere forme di cooperazione o integrazione. In questo periodo Londra rimarrà nell’unione doganale e nel mercato unico. Le relazioni commerciali con i 27 non cambieranno: beni e servizi continueranno a circolare liberamente da e verso il continente. Il Regno Unito dovrà inoltre continuare a seguire le regole dell’UE, a rispettare le sentenze della Corte di giustizia europea e a contribuire al bilancio comunitario. Non sarà però più rappresentato e, quindi, non avrà più diritto di voto nelle istituzioni europee. Perderà, fra l’altro, gli attuali 73 seggi a Bruxelles. Nel periodo di transizione si troverà in una posizione scomoda: sarà tenuto ad applicare norme e regole su cui non avrà più voce in capitolo. Per questo l’idea di chiedere una proroga delle trattative non entusiasma Londra. Nell’accordo si prevede, comunque che, entro il primo luglio, gli inglesi possano chiedere una estensione di uno o due anni. Tenendo conto dei tempi tecnici per le ratifiche dei vari parlamenti le trattative vere e proprie dovrebbero svolgersi in sette mesi.
I pessimisti ricordano che per raggiungere un accordo col Canada sono serviti cinque anni, per non parlare dei tre che sono stati necessari alla sua entrata in vigore per altro in forma provvisoria! Da qui a fine anno probabilmente non saranno create neanche le strutture portuali necessari a gestire i rapporti con l’Irlanda del Nord che Johnson ha dovuto “abbandonare” in Europa. L’idea più volte avanzata da Trump di offrire al Regno Unito un meraviglioso accordo bilaterale potrebbe risultare abbastanza evanescente. Su molti punti Londra dovrà scegliere se stare con Washington o con gli attuali partner europei che, nel loro insieme, rappresentano una quota di commerci più ampia. Sui beni alimentari Londra dovrà decidere se permettere o meno la diffusione di carni provenienti da bovini allevati con ormoni. Nel settore farmaceutico va poi tenuto presente che alcune medicine sono vendute negli USA al triplo rispetto all’Europa. In sintesi la Brexit potrebbe tornare ad essere un elemento da considerare negli scenari di mercato.
La nuova presidente della Commissione sta parlando molto di un progetto per abbattere le emissioni. A dicembre si è deciso di portarle a zero entro il 2050(**), la scorsa settimana sono state presentate le risorse e si è anche parlato di ridurre le emissioni del 55%, rispetto ai livelli del 1990, entro il 2030. Si è parlato di 1.000 miliardi in 10 anni di cui 900 per nuovi impianti e 100 per aiutare chi si troverà in difficoltà con la transizione. Va detto che la cifra, per quanto enorme, è circa un terzo di quella necessaria: 300 milioni all’anno per i prossimi 10 anni. Inoltre risorse fresche dal bilancio europeo ne sono state messe a disposizione ben poche, meno di 10. Per ora si parla soltanto di riallocare le risorse già impegnate, anche quelle dei bilanci, che devono ancora essere approvati! La maggior parte dei finanziamenti potranno arrivare solo dai privanti se partirà un serio programma di riconversione produttiva di cui l’Europa farebbe solo da volano. Molto importante sarà affrontare il prezzo del c arbone e delle sue emissioni. L’importanza dell’impegno ecologico va collegata non solo agli ovvi effetti di un eventuale piano di investimenti, ma anche alla necessaria attenzione a tutto ciò che potrebbe evitare possibili cambiamenti climatici che non sarebbero privi di rischio per l’economia. La Banca dei Regolamenti Internazionali ha recentemente presentato un rapporto denominato cigno verde riferendosi alla possibilità che il prossimo cigno nero, termine con cui ormai si indica un evento imprevisto in grado di generare una crisi economica, sia verde.
In Medio Oriente ed in Libia sappiamo esistere dei focolai di tensione c he potrebbero avere conseguenze sul prezzo del petrolio, per quanto siano passati i tempi in cui l’offerta petrolifera era solo in mano ai paesi arabi. In Libia le due correnti dell’islam sunnita si stanno facendo quella che è spesso definita guerra per procura: due fazioni scelgono un paese terzo per affrontarsi. Una parte dei sunniti appoggia i fratelli musulmani ed un’altra è più lontana dalle loro posizioni, a volte estreme. Da una parte si collocano l’Egitto e gli Emirati e dall’altra la Turchia che contrasta i fratelli musulmani. L’Europa fatica a trovare una posizione comune e dopo il vertice di Berlino la Francia sembra voler, come dire, giocare in proprio. In Iran “grazie” alla strategia del regime che in pratica ha due facce quella del presidente Rohani che dialoga con l’Occidente e quella di Khamenei che, in pratica, controlla i pasdaran, la situazione dovrebbe rimanere sotto controllo nonostante le pesanti sanzioni imposte dagli USA.
Un altro elemento che viene spesso preso in considerazione dai commentatori è l’anno elettorale in USA anche se le statistiche mostrano che non ha mai avuto conseguenze negative. Le prime analisi parlano di una tornata elettorale più complicata delle altre. Non si sa ancora chi potrà essere il candidato democratico per quanto il più probabile sia l’ex vice di Obama: Joe Biden. Non si sa ancora se Bloomberg riuscirà a far fruttare il miliardo che ha dichiarato di voler investire per ottenere la candidatura e soprattutto non si sa se reggerà la base elettorale di Trump, a partire dagli agricoltori. Infine un altro elemento potrebbe essere l’aumentato peso degli elettori ispanici che potrebbe fare la differenza in Texas dove sono in gioco 39 grandi elettori. Chi ritiene che l’attuale inquilino della Casa Bianca non otterrà un secondo mandato si basa, ad esempio, su statistiche che parlano di un aumento nel numero di americani privi di una copertura sanitaria. Altri aggiungono considerazioni su un clima ostile da parte degli USA verso alleati e nemici.
Con riferimento alle previsioni sull’andamento dei mercati, come abbiamo già detto, praticamente tutti parlano di un anno tranquillo ancora una volta sotto l’ombrello delle autorità monetarie. Vale la pena, però citare alcune analisi di Morgan Stanley che sostanzialmente parlano di un mercato in cui può essere il caso di approfittare dei rialzi per costruire un AA più prudente magari anche semplicemente diminuendo il peso delle azioni americane che risultano più care di quelle europee ed asiatiche.
(*) Attualmente i tassi della FED sono all’1,75%. Dopo esser stati per anni sotto all’uno per cento, ed averlo superato nel 2017, erano risaliti fino al due e mezzo per cento nel dicembre del 2018 per poi tornare a scendere.
(**) Ovviamente si tratta di un obiettivo che qualcuno ritiene irraggiungibile così come qualcuno ricorda le numerose previsioni catastrofiste sul clima non concretizzatesi. Va, comunque segnalato l’effettivo impegno della Germania che conta di abbandonare il carbone entro il 2028.
G.G e M.R.
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